La Corte di Cassazione, con la sentenza 23/03/2020 n.7483, ha ribadito che il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore ai sensi dell’art. 2729 c.c.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità, una lavoratrice era ricorsa al tribunale del lavoro affinché accogliesse la sua domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno professionale subito a seguito di dequalificazione.

Più precisamente la lavoratrice era stata inquadrata nel VI livello del CCNL di categoria caratterizzato dal coordinamento di unità organizzative complesse. In realtà la ricorrente aveva invece svolto un lavoro di assistenza clienti sotto la direzione e il coordinamento di un responsabile.

Sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello hanno accolto le doglianze della lavoratrice quantificando il danno nella misura pari al 50% delle retribuzioni maturate nel periodo di svolgimento del lavoro oltre gli oneri accessori dovuti per legge.

Il datore di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, ma quest’ultimo non ha trovato accoglimento.

Secondo la Suprema Corte, il lavoratore può provare il danno subito attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.

In sostanza, conclude la Corte di Cassazione, nessuna modifica alle mansioni era intervenuta per cui è corretto il giudizio della Corte d’appello che ha accertato l’esistenza del depauperamento professionale in ragione del lungo arco temporale per il quale si è protratto tenendo conto della natura delle mansioni svolte.