Non c'è mobbing se manca una condotta prevaricatrice e vessatoria
A cura della redazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza 17/02/2009 n.3785, ha deciso che affinchè il comportamento del superiore gerarchico possa configurare il mobbing è necessario che la sua condotta nei confronti del dipendente risulti prevaricatrice e vessatoria e non semplicemente di continua conflittualità sulle modalità della prestazione lavorativa.
La Suprema Corte, nel silenzio della legge, hanno ricordato la definizione data dalla dottrina e dalla giurisprudenza al concetto di mobbing.
Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi:
a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
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