La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15327 del 30 giugno 2009, ha stabilito che il datore di lavoro può limitare il diritto alla riservatezza del dipendente per esigenze di tutela della personalità dei suoi colleghi.
In particolare, la Suprema Corte si è pronunciata sul caso di alcuni dipendenti che avevano ricevuto lettere anonime dal contenuto ingiurioso. Gli stessi avevano richiesto all'azienda di potere disporre di documenti di lavoro scritti a mano o firmati da un loro collega al fine di sottoporli a perizia grafica e stabilire, in tal modo, se egli fosse l'autore delle missive. L'azienda in questione aveva accolto la richiesta, consegnando ai richiedenti alcune bolle doganali ed altri analoghi documenti compilati dal sospettato.
Ai sensi dell'art. 11, comma 1, della legge n. 675 del 1996 e con le esclusioni di cui al successivo art. 12 - ha sancito la Corte - il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato. Costituisce trattamento, in base alla lettera b) del comma 2 dell'art. 1 della legge stessa, "qualunque operazione o complesso di operazioni, svolti con o senza l'ausilio di mezzi elettronici o comunque automatizzati, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati". Dato personale è poi - secondo la lettera c) sempre del comma 2 - "qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale". Deve pertanto ritenersi  che, l'avere consegnato, e quindi comunicato, ai colleghi di lavoro del dipendente sospettato copia di alcuni documenti, da lui compilati e/o sottoscritti, dei quali la società era in possesso in quanto datore di lavoro, ha realizzato trattamento di dato personale senza consenso.
Tuttavia - ha proseguito la Cassazione - nella fattispecie de qua, data la peculiarità del caso, per la consegna a terzi dei dati non era necessario il consenso dell'interessato. I rapporti di lavoro inseriti in un'organizzazione, infatti, versano in una situazione davvero particolare, in quanto al responsabile dell'organizzazione e quindi all'imprenditore, titolare dei relativi poteri, incombe l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro alle sue dipendenze (art. 2087 cod. civ.).
Nel caso in esame da un lato, quindi, erano in gioco diritti della persona degli altri dipendenti, di rilievo costituzionale, e tali diritti non potevano trovare attuazione se non individuando l'autore degli anonimi; da un altro la situazione determinatasi poteva avvelenare l'ambiente di lavoro; infine, i documenti consegnati erano di contenuto di scarsa rilevanza (richieste di istruzioni, di cambio del turno, rinascimento di premi di produzione, bolle doganali compilate dal dipendente nell'espletamento del servizio).
Pertanto, la società ha adempiuto all'obbligo di cui all'art. 2087 cit., il cui contenuto, in una situazione e con le modalità di cui sopra, costituisce il legittimo limite al diritto al consenso espresso di cui all'art. 1 L. n. 675 cit.. Invero - come affermato dalla giurisprudenza di legittimità  in analoghe occasioni - in tema di trattamento dei dati personali, l'interesse alla riservatezza, tutelato dall'ordinamento positivo, recede quando quest'ultimo sia esercitato per la difesa di un interesse giuridicamente rilevante e nei soli limiti in cui esso sia necessario alla tutela.