Il Tribunale di Napoli, con la sentenza 19/12/2012 n. 32513, ha deciso che la contrattazione collettiva, senza una specifica delega da parte del legislatore nazionale, non può prevedere autonomamente e direttamente una limitazione all’utilizzo dei part time nelle aziende, la cui violazione determinerebbe la trasformazione dei rapporti di lavoro in contratti a tempo pieno.
Nel caso esaminato dai giudici partenopei, l’INPS aveva richiesto ad un’azienda del settore edile la contribuzione piena per i lavoratori part time assunti in più rispetto al limite del 3% dei lavoratori occupati a tempo indeterminato fissato dal contratto collettivo di settore (art. 78 CCNL edili industria).
La sentenza si pone quindi in contrasto con la posizione dell’INPS (circ. 6/2010) che invece ha sempre sostenuto che una volta raggiunta la percentuale del 3% del totale dei lavoratori a tempo indeterminato nell’impresa, o superato il limite del 30% degli operai a tempo pieno dipendenti dell’impresa stessa, ogni ulteriore contratto part time stipulato deve considerarsi attivato in violazione delle regole contrattuali con la conseguenza che per questi ultimi deve essere versata la contribuzione piena.  In linea con l’INPS, anche l’INAIL (circ. 51/2010) e il Ministero del lavoro (Risp. Interpello 8/2011).
Secondo il Tribunale di Napoli invece questo comportamento è contrario alla legge. Infatti il DLgs 61/2000 consente alla contrattazione collettiva di qualsiasi livello solo di disciplinare le condizioni e le modalità di utilizzo dei rapporti part time, senza fissare però limiti quantitativi. La norma non può nemmeno essere interpretata estensivamente dato che il legislatore quando ha voluto delegare alla contrattazione collettiva anche il compito di regolamentare i limiti quantitativi lo ha sempre fatto espressamente (si pensi ai contratti a termine o alla somministrazione di lavoro).