La Corte di Cassazione, con la sentenza 12 maggio 2023 n.12994, ha deciso che è legittimo il licenziamento del lavoratore che, dopo aver subito un infortunio, durante il periodo di riposo e cure, compie sforzi fisici che ne ritardano la guarigione.​

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un lavoratore è stato licenziato per giusta causa per aver aggravato lo stato di malattia generato da un infortunio occorsogli sul luogo di lavoro (trauma alla caviglia) tenendo condotte contrarie ai doveri di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede. ​

In particolare il datore di lavoro, sulla base di investigazioni private svolte durante l’arco temporale contestato al lavoratore, ha riscontrato che il dipendente ha tenuto comportamenti che ne hanno ritardato la guarigione in palese contrasto con le prescrizioni mediche che richiedevano riposo e cure, quali guida di auto, scooter o moto, scarico e carico di scatoloni, spazzamento del marciapiedi antistante l'esercizio commerciale intestato ai familiari, ripetuti spostamenti a piedi, montaggio con altre persone di un portabagagli sulla propria vettura e carico e scarico di materiale edile.

Il Tribunale ha qualificato illegittimo il licenziamento disponendo la reintegrazione del lavoratore per insussistenza dei fatti contestatigli in assenza di prescrizioni mediche che lo limitassero nei movimenti o negli spostamenti o nelle attività quotidiane. ​

Invece, la Corte d’Appello ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa, sulla base del principio di diritto che sancisce l’inesistenza di un obbligo del lavoratore in stato di malattia di astenersi da attività, anche lavorative, con esso compatibili, purché con le cautele idonee a non ritardarne la guarigione, nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.​

Diversamente deve ritenersi giustificato il recesso datoriale, sia nell'ipotesi in cui dall'attività esterna prestata possa essere presunta l'inesistenza della malattia (dimostrandone la fraudolenta simulazione), sia nel caso in cui la medesima attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro, con irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia; spettando al lavoratore l'onere della prova della suddetta compatibilità, non pregiudicante, né ritardante la guarigione.

Il lavoratore si è così rivolto alla Suprema Corte che ha condiviso il ragionamento logico-giuridico del giudice di merito, richiamando il consolidato orientamento secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la stessa, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (Cass. 5 agosto 2014, n. 17625 Cass. 27 aprile 2017, n. 10416 Cass. 19 ottobre 2018, n. 26496).