E’ legittima la perequazione pensionistica per gli anni 2023 e 2024 con la quale è stata ridotta la rivalutazione delle pensioni medio alte al di sopra di 2.101 euro mensili.

Così si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza n. 19 del 29 gennaio 2025 in relazione all’art. 1 comma 309 della legge 197/2022 che aveva fissato la regola di rivalutazione dei trattamenti pensionistici per il periodo 2023 e 2024.

Infatti, per l’anno 2023, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è stata riconosciuta integralmente solo per quelli complessivamente pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS (cioè fino a 2.101,52 euro al mese) mentre per quelli superiori la rivalutazione è stata  accordata, col sistema a fasce, in misura decrescente: 85% per gli assegni pari o inferiori a cinque volte il minimo; 53% per quelli di importo compreso tra cinque e sei volte tale soglia; 47% per i trattamenti inclusi in una forbice tra le sei e le otto volte il suddetto limite; 37% per quelli rientranti nell’intervallo tra le otto e le dieci volte il medesimo livello; 32% per i trattamenti superiori a dieci volte il minimo, percentuali che per il 2024 sono rimaste inalterate salvo per l’ultima fascia ridotta portata dal 32% al 22%. In quest’ultimo anno la soglia fino alla quale la rivalutazione è stata accordata al 100% è stata di 2.271,76 euro.

Dopo avere ricostruito il quadro legislativo che si è alternato nel tempo per fissare i criteri di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, adeguandoli all’inflazione, la sentenza passa al merito delle questioni basate soprattutto sull’accusa di irragionevole scelta del legislatore e perciò con effetti discriminatori, di limitare l’adeguamento delle pensioni per le fasce medio alte.

Per i giudici che respingono queste considerazioni il congegno normativo in questione salvaguarda l’integrale rivalutazione delle pensioni di più modesta entità, di cui anzi allarga l’ambito, ricomprendendo in esso quelle di importo pari a quattro volte (e non più a tre come in passato) il trattamento minimo INPS, senza escluderne nessuno dalla rivalutazione che in progressione inversa rispetto all’importo della pensione viene comunque applicata.

Va infatti riconosciuta una discrezionalità del legislatore, il quale può stabilire nel concreto le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento di valori che tenga conto anche delle esigenze di bilancio, poiché l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico incontrano pur sempre il limite delle risorse disponibili.

In conclusione, ogni limitazione dell’indicizzazione, è stata giustificata dalla Corte come rispettosa del principio di adeguatezza enunciato nell’art. 38, secondo comma, Cost. norma che non prescrive la necessità costituzionale dell’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici, né d’altronde la mancata perequazione per un solo anno incide, di per sé, sull’adeguatezza della pensione (sentenze n. 250 del 2017 e 234/2020 della Corte medesima).

In definitiva, nel dichiarare le citate norme legittime, la Consulta non ha deciso alcun recupero delle somme non percepite dai pensionati esclusi dalla rivalutazione integrale dell’inflazione.