Con l'ordinanza n. 26446 del 10 ottobre 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso controverso di licenziamento per offese rivolte al datore di lavoro tramite social network, confermando l’illegittimità del provvedimento disciplinare e la reintegrazione della lavoratrice nel suo posto di lavoro.

Il contesto: un ambiente lavorativo nocivo e una reazione emotiva
Il caso riguarda una dipendente che, dopo aver denunciato più volte la contaminazione del luogo di lavoro per la fuoriuscita di sostanze nocive, e a seguito di un infortunio per intossicazione che aveva coinvolto il marito, aveva pubblicato su Facebook una serie di commenti denigratori nei confronti della società e del suo amministratore delegato. La reazione dell’azienda era stata immediata: licenziamento per insubordinazione e diffamazione. Tuttavia, la lavoratrice aveva impugnato il provvedimento, portando il caso fino alla Suprema Corte.

La decisione della Corte: offesa come reazione a un’ingiustizia
La Corte di Cassazione ha accolto le ragioni della dipendente, stabilendo che le offese pubblicate sui social network, se inserite in un contesto di reazione emotiva a un fatto ingiusto, non costituiscono automaticamente un reato o una giusta causa di licenziamento. Nello specifico, i giudici hanno riconosciuto che il comportamento della lavoratrice, pur offensivo, era riconducibile a uno "sfogo iracondo" dovuto all’emotività scaturita dalla grave situazione lavorativa e dall'infortunio del marito.

Assenza di delitto e insubordinazione
La Suprema Corte ha sottolineato come, nel caso specifico, non si potesse parlare di delitto né di insubordinazione in senso stretto. Le frasi denigratorie, infatti, non erano collegate all’inosservanza di direttive o a un rifiuto di eseguire ordini, ma derivavano da una situazione di stress causata da un evento che la lavoratrice riteneva responsabilità del datore di lavoro. La Corte ha dunque escluso che l’episodio potesse essere considerato grave al punto da giustificare il recesso del rapporto di lavoro.

L’applicazione dell’esimente per diffamazione
Un altro aspetto fondamentale della sentenza riguarda l'applicazione dell'esimente di cui all'art. 599 del codice penale, che prevede l’esclusione della punibilità per diffamazione se l’offesa è stata pronunciata in uno stato d’ira provocato da un fatto ingiusto subito. In questo caso, i giudici hanno ritenuto che la situazione contingente giustificasse la reazione della dipendente, la quale aveva agito immediatamente dopo aver subito un evento che percepiva come ingiusto.

La necessità di valutare il contesto
La Cassazione ha ribadito che, per valutare l’illegittimità di un licenziamento basato su offese al datore di lavoro, è essenziale considerare il contesto in cui tali offese sono state espresse. Non vi è infatti un automatismo tra l’offesa e il giudizio di insubordinazione: occorre sempre esaminare le circostanze che hanno portato all’affronto, soprattutto quando è evidente che il dipendente ha agito sotto l’influsso di uno stato emotivo causato da una situazione di ingiustizia.