La Corte di Cassazione, con la sentenza 3/07/2017 n.16335, ha deciso che le condotte datoriali, seppur accertate essere illegittime dai giudici di merito, non sempre costituiscono mobbing, con diritto del lavoratore al riconoscimento dei danni biologici e morali.

La sentenza si allinea all’orientamento maggioritario (Cass. 3785/2009 e 898/2014) secondo cui, in assenza di una definizione legale, per mobbing si deve intendere comunemente una condotta del datore di lavoro o del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Perché si possa configurare tale condotta lesiva da parte del datore di lavoro è necessario che siano soddisfatte le seguenti condizioni: molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo meramente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio, caratterizzato da dolo specifico, ossia dalla volontà cosciente di porre in essere una determinata condotta, positiva o negativa, finalizzata al particolare scopo di recare offesa  (Cass. n.9380/2016 e n. 14485/2017).

Secondo la Suprema Corte, costituisce quindi mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni di vario tipo ed entità al dipendente medesimo.

Ne consegue che nella specie con il rigetto del ricorso si è ritenuto che, come adeguatamente motivato dai giudici di merito, non ricorressero gli estremi della condotta mobbizzante nella mera denegata partecipazione ai corsi professionali, in sé gestiti con metodo clientelare, nonché nell'omessa dotazione di supporti informatici per lo svolgimento dell'attività professionale e nella messa a disposizione di ambienti di lavoro particolarmente ristretti, attesa l'assenza della prova di una  esplicita  volontà  del  datore  di  lavoro  di  emarginare  il  dipendente  in  vista  di  una  sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio.

Nel caso in specie, quindi, si è in difetto di univoci elementi probatori, idonei a dimostrare la sussistenza dell'anzidetto indefettibile elemento soggettivo, cioè nell'intento persecutorio (caratterizzato da dolo specifico, ossia dalla volontà cosciente di porre in essere una determinata condotta, positiva o negativa, finalizzata al particolare scopo di recare offesa). I giudici di legittimità richiamano anche la sentenza  n.  16003 del 19/07/2007, secondo cui il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 cod. civ.