Il lavoratore illegittimamente licenziato non può pretendere la reintegrazione, ma solo il risarcimento del danno, nel caso in cui dopo l'interruzione del rapporto di lavoro l'azienda cessa l'attività (Cass. n. 13297 del 7/06/2007).
Più precisamente la cessazione di ogni attività da parte dell'imprenditore rientra nella libertà di impresa garantita dall'art. 41 della Costituzione e l'aver operato simile scelta rappresenta una circostanza di fatto che può essere introdotta nel processo senza necessità di rispettare alcun formalismo, atteso che non si tratta né di una domanda riconvenzionale né di un'eccezione in senso stretto; donde la inapplicabilità delle regole di cui agli artt. 416, secondo comma, e 418 del codice di rito. Il giudice che accerti l'illegittimità di un licenziamento non può disporre la reintegrazione nel posto di lavoro, qualora nelle more del giudizio sia sopravvenuta la cessazione totale dell'attività aziendale, ma deve limitarsi ad accogliere la sola domanda di risarcimento del danno, relativo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto. Tale soluzione riconosce l'autonomia della tutela cosiddetta risarcitoria rispetto a quella cd. ripristinatoria, entrambe previste dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, e la applicabilità anche al rapporto di lavoro degli artt. 1256 e 1463 c.c.