La Corte di Cassazione, sentenza 10/01/2018 n.331, ha deciso che se il fatto posto a base del licenziamento poi dichiarato illegittimo è temporaneamente manifestamente insussistente, il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione nel luogo di lavoro, ma solo al risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Nel caso sottoposto all’esame dei giudici di legittimità, un’azienda aveva disposto il licenziamento di un lavoratore per impossibilità della prosecuzione del rapporto di lavoro a seguito di un’interdittiva prefettizia che aveva evidenziato il pericolo di infiltrazioni mafiose in ragione della presenza di lavoratori aventi precedenti penali e comunque vicini, per rapporti di parentela e di affinità, ad esponenti dei locali clan mafiosi.

Tale provvedimento, che aveva comportato una modifica nell’organizzazione dell’impresa, votata in via prevalente all’acquisizione ed esecuzione di appalti pubblici per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti e nettezza urbana, è stato impugnato dall’azienda dinnanzi al giudice amministrativo, il quale lo ha dichiarato illegittimo.

Per effetto di detta riorganizzazione, l’azienda ha disposto il licenziamento contro il quale il lavoratore ha proposto ricorso. I giudici di merito hanno dichiarato l’illegittimità del licenziamento per mancanza del giustificato motivo oggettivo e considerato che non poteva qualificarsi la fattispecie come priva in modo manifesto dei fatti astrattamente idonei a cagionare i licenziamenti, con la conseguenza che non poteva trovare applicazione il quarto comma del novellato art. 18 St. Lavoratori che prevede la reintegrazione, ma il mero risarcimento.

Il lavoratore, intenzionato ad ottenere la reintegrazione, è così giunto davanti alla Suprema Corte che ha ribadito che la Legge 92/2012, graduando le tutele in caso di licenziamento, ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18 una tutela reintegratoria definita attenuata in base al quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di un’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione in misura  comunque non superiore a 12 mensilità e al quinto comma una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella stessa disposizione.

La linea di confine tra le due norme, continuano i giudici di legittimità, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è individuata dal settimo comma del medesimo art. 18 in base al quale il giudice applica la disciplina del quarto comma (reintegrazione) se accerta la manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; mentre, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina del quinto comma (risarcimento).

Ciò detto, nel caso in esame, non vi è alcun dubbio che al momento del licenziamento, sussisteva l’interdittiva prefettizia, riguardante anche la posizione del lavoratore in controversia, potenzialmente idonea ad incidere sul regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro dell’impresa datrice, ma l’illegittimità del recesso deve essere ricercata nel non avere la società dimostrato le ragioni che rendevano intollerabile attendere la rimozione dell’impedimento alle normali funzioni del lavoratore; impedimento che poteva avere un durata temporanea tenuto conto che l’azienda aveva ritenuto tempestivamente illegittimo il provvedimento e lo aveva impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa.

In conclusione, secondo la sentenza, l’ipotesi in discussione è riconducibile non all’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì rientra nell’ambito di applicazione di portata generale per la quale è sufficiente che non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo oggettivo per intimare il licenziamento.

Pertanto una volta esclusa la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nelle altre ipotesi il giudice, come ricordato sopra, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.