La Corte di Cassazione, con la sentenza 1/06/2020 n.10404, ha ribadito l’orientamento secondo cui il riconoscimento della malattia professionale non comporta automaticamente anche la sussistenza della responsabilità del datore di lavoro ai seni dell’art. 2087 c.c.

Infatti incombe sul lavoratore che lamenta d aver contratto la malattia, l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso e il danno.

Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, un lavoratore si era rivolto al Tribunale del lavoro affinché condannasse l’azienda al risarcimento del danno biologico derivante dalla patologia da cui era affetto. Sia i giudici di primo che di secondo grado hanno respinto il gravame ritenendo che il lavoratore non avesse fornito la prova del dedotto inadempimento da parte del datore di lavoro.

Il lavoratore ha così proposto ricorso in Cassazione, ma i giudici di legittimità lo hanno rigettato richiamando il costante orientamento (Cass. n.13956/2012, n.17092/2012 e n.22710/2015) secondo cui la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla disposizione di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c. costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico fisica dei lavoratori.

In ogni caso il nesso di causalità tra la malattia professionale e l’inadempimento datoriale deve essere provato dal lavoratore.