La Corte di Cassazione, con la sentenza 23/09/2019 n.23853, ha deciso che la reintegrazione prevista in caso di licenziamento nullo, adottato per motivo illecito determinate, può essere accordata solo se il provvedimento espulsivo è stato determinato esclusivamente da esso.

Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l’unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L’esclusività invece sta a significare che il motivo illecito può concorre con un motivo lecito, ma solo nel senso che quest’ultimo sia stato formalmente addotto, ma non sussistente nel ricorso giudiziale.

Ne consegue che la nullità del licenziamento è esclusa se con il motivo illecito concorre anche una giusta causa o un giustificato motivo.

Nel caso in esame un lavoratore aveva ricevuto, al momento del suo rientro in servizio dopo una lunga malattia, una lettera di licenziamento motivata dalla scelta organizzativa di chiudere il settore produttivo della bigiotteria, argenteria e ottone, per il calo di commesse riguardante tale settore, con conseguente soppressione della posizione e della funzione ricoperta dal lavoratore in azienda e impossibilità di ricollocamento in altere mansioni uguali o equivalenti.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento chiedendo al giudice di merito che venisse dichiarata la sua nullità perché intimato per ritorsione e venisse condannata la società alla reintegra nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno.

I giudici territoriali hanno accolto il ricorso osservando che dalla documentazione prodotta e la prova testimoniale era stata dimostrata l’inesistenza di un vero e proprio reparto di lavorazione dei materiali diversi dall’oro, la mancata adibizione esclusiva del lavoratore licenziato a tali lavorazioni, il carattere marginale delle stesse rispetto al complesso della produzione aziendale, le maggiori esperienze e conoscenze del reclamante nel settore dell’incisione dell’oro rispetto a quelle di un altro dipendente rimasto in servizio nonché l’assunzione successiva al licenziamento, di una nuova dipendente che, nonostante il formale inquadramento come impiegata, di fatto era stata addetta anche alle lavorazioni dell’oro.

A fronte di tale quadro probatorio, non si era in presenza di un’ipotesi di ristrutturazione azienda, ma di mera riduzione delle mansioni del reclamante relative alla cessazione di alcune lavorazioni, situazione peraltro inseritasi nel contesto di un andamento positivo del complessivo fatturato aziendale negli anni precedenti il recesso.

I giudici di merito hanno così ravvisato la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento espressivo della volontà di rappresaglia per la prolungata assenza del dipendente per malattia.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda richiamando il proprio consolidato orientamento (Cass. n. 14816/2016, 5555/2011, 10047/2004 e 18283/2010) secondo cui per accordare la tutela che l’ordinamento riconosce a fronte della nullità del provvedimento espulsivo,  occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.

L’onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro.