La Corte di Cassazione, con la sentenza 2/05/2018 n.10435, ha deciso che la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento riguarda sia le ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore.

Nel caso in esame una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento, intimatogli per esigenze di riorganizzazione aziendale in diretta connessione con i dati di bilancio sensibilmente negativi, in considerazione del mancato assolvimento dell’obbligo di repechage chiedendo l’applicazione della conseguente tutela risarcitoria.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno accorto il ricorso, dichiarando illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e ritenendo insufficientemente assolto l’onere di provare l’obbligo di repechage e hanno applicato la tutela indennitaria condannando il datore di lavoro al pagamento di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Si è così giunti in Cassazione la quale ha richiamato il proprio consolidato orientamento (Sent. 25201/2016, 10699/2017 e 24882/2017) secondo cui la modifica della struttura  organizzativa che legittima il licenziamento per GMO può derivare da: esternalizzazione a terzi dell’attività a cui era addetto il lavoratore licenziato, soppressione della funzione cui il lavoratore era adibito; ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forza; innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto oppure nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell’incremento della redditività. Resta in ogni caso fermo che il giudice di merito deve controllare l’effettività e la non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso nonché verificare il nesso causale tra l’accertata ragione e l’intimato licenziamento.

Sempre secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione (sent. 4460/2015, 5592/2016, 12101/2016, 24882/2017 e 27792/2017) la legittimità del licenziamento per GMO presuppone da un lato l’esistenza della soppressione di un posto di lavoro e dall’altro l’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore licenziato. Con riferimento a quest’ultimo obbligo (c.d. di repechage) spetta al datore di lavoro l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.

In sostanza sul datore di lavoro incombe l’onere di dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (Cass. sent. 20436/2016, 160/2017, 9869/2017).

Pertanto, una volta accertata l’ingiustificatezza del licenziamento per carenza dell’esigenza della soppressione del posto di lavoro e dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il giudice di merito, ai fini dell’individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta ossia evidente l’insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che casualmente determini un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, ovvero dell’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse.

In merito al regime sanzionatorio applicabile, il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti può essere assoggettato a sanzioni diverse: la reintegrazione nel posto di lavoro oppure il risarcimento del danno.

La scelta tra le due alternative, impone al giudice di valutare l’eccessiva onerosità della sanzione reintegratoria rispetto al risarcimento per equivalente.

In ogni caso rimane fermo il principio di diritto secondo cui ove il licenziamento sia dichiarato illegittimo e il datore di lavoro sia condannato al risarcimento del danno nella misura legale, l’ammontare di tale risarcimento copre tutti i pregiudizi economici conseguenti alla perdita del lavoro e della retribuzione. Ciò non esclude la possibilità per il lavoratore di fornire la prova di ulteriori danni, ivi compreso il danno biologico che siano conseguenza solo mediata e indiretta del licenziamento.