Licenziamenti economici: per la tutela dell’art. 18 non serve che l’insussistenza del fatto sia “manifesta”
A cura della redazione
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, ha stabilito che, ai fini della tutela dell'art. 18 della L. 300/1970, nel testo modificato dalla riforma Fornero, il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia "manifesta" (settimo comma, secondo periodo).
L’incostituzionalità ha colpito la sola parola “manifesta”, che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative. Al fatto – spiega la sentenza – si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità” (sentenza 59/2021).
La Corte ha affermato che il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento.
Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché evoca “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”.
Il criterio della manifesta insussistenza – ha precisato, inoltre, la Corte – “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.
Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto – che è già di per sé un’operazione complessa – le parti, e con esse il giudice, si devono impegnare “nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza”. Vi è, dunque, un “aggravio irragionevole e sproporzionato” sull’andamento del processo: all’indeterminatezza del requisito si affianca una irragionevole complicazione sul fronte processuale.
La Corte ha, dunque, individuato uno squilibrio tra i fini che il legislatore si era prefisso – consistenti in una più equa distribuzione delle tutele, attraverso decisioni più rapide e più facilmente prevedibili – e i mezzi adottati per raggiungerli.
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