La Corte costituzionale, con decisione del 4 novembre 2020 ha ritenuto inammissibili le questioni di incostituzionalità sollevate nei confronti della disciplina dei licenziamenti collettivi così come regolata dal job act del 2015. Si tratta di una serie di questioni sollevate dalla Corte d’appello di Napoli nel 2019 sulla disciplina dei licenziamenti collettivi, prevista nel decreto legislativo n.23 del 2015 attuativo del cosiddetto Jobs Act. La Corte di appello riteneva infatti la violazione ai principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza per avere previsti nella procedura di licenziamento collettivo, differenti sanzioni a carico dell’imprenditore a seconda della data di assunzione dei lavoratori, anteriore o successiva al 7 marzo 2020. Ricordiamo infatti che, in caso di mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, mentre lo statuto dei lavoratori prevede per i lavoratori in forza assunti prima di tale data la reintegrazione nel posto di lavoro e un massimo di 12 mensilità di retribuzione pregressa, per gli assunti dopo e soggetti al D.Lgs. 23/2015, la sanzione è solo economica e va da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità.  Valore quest’ultimo deciso dal giudice in base a diversi criteri tra cui l’anzianità di servizio, dopo la sentenza n. 194, in questo caso di illegittimità costituzionale, emessa dalla stessa Corte costituzionale nel 2018. Oggi invece la Consulta ritiene che la motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni relative ai licenziamenti collettivi sia insufficiente e che non sia stato chiarito il tipo di intervento richiesto. Ed è la prima volta che il D.Lgs. 23/2015 ha resistito a pronunce di incostituzionalità mosse da giudici di merito, pronunce che hanno annullato il meccanismo delle tutele crescenti basato sull’anzianità di servizio del lavoratore. Attendiamo ora la pubblicazione delle motivazioni per avere un quadro conoscitivo più approfondito dell’intera questione.