Legittimo il licenziamento dell’impiegata che critica l’azienda con i messaggi Facebook
A cura della redazione
Il Tribunale di Bari, con la sentenza 10/06/2019 n.2336, ha deciso che integra la giusta causa di licenziamento il dipendente che invia messaggi tramite Facebook utilizzando il telefonino aziendale con il quale svela i segreti dell’impresa.
Nel caso sottoposto all’attenzione del giudice del lavoro del capoluogo pugliese, una segretaria ha installato sul cellulare aziendale l’applicazione Facebook associata a un profilo personale. A casa per malattia, aveva restituito il telefono, sul quale però continuavano ad arrivare messaggi prontamente raccolti dal datore di lavoro. Oltre a intrattenere numerose conversazioni private, infatti, la lavoratrice “infedele” rivelava informazioni e notizie aziendali riservate a imprese concorrenti.
Secondo la sentenza, la concorrenza di tutte queste circostanze, è idonea a integrare la giusta causa di licenziamento. Infatti l’azienda può controllare i propri dipendenti per evitare possibili aggravamenti delle loro condotte.
Non è la prima volta che la segretezza della corrispondenza dei lavoratori entra nelle pronunce dei giudici, dando vita tuttavia a una giurisprudenza spesso contrastante.
Secondo un orientamento il datore di lavoro può controllare i computer aziendali infettati da virus per motivi di sicurezza. Se nel corso delle verifiche vengono scoperti accessi alla posta elettronica personale e a siti non attinenti all’attività lavorativa, può scattare la contestazione disciplinare. A nulla vale la difesa del lavoratore che presenta ricorso al Garante per la protezione dei dati personali per illecita acquisizione dei dati. Se la finalità è quella della difesa in giudizio il datore di lavoro può produrre i dati acquisiti (Corte di appello di Roma n. 1331 del 22 marzo 2019).
All’opposto il datore di lavoro non può accedere per finalità disciplinari alla email personale del lavoratore protetta da password (Cass. Sent. n. 13057 del 31 marzo 2016). Anzi la violazione di tale divieto può addirittura integrare il reato di accesso abusivo a un sistema informatico.
Sulla questione è anche intervenuta la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con la sentenza del 5 settembre 2017, C. 61496/08, ha stabilito che le comunicazioni personali possono essere soggette a limitazioni solo se il lavoratore sia stato preventivamente informato del possibile controllo sulla corrispondenza aziendale, delle modalità e delle ragioni che lo giustificano.
Nel nostro ordinamento, il citato principio europeo, è contenuto nell’articolo 4 della legge 300/70, modificato dall’articolo 23 del D.Lgs. 81/2015, che ha eliminato il divieto generale di sorveglianza del dipendente. Tale principio di trasparenza impone però al datore di lavoro di informare i lavoratori sulle modalità di controllo che, dopo l’entrata in vigore del Reg. UE 679/2016 (c.d. Gdpr), non potrà essere massivo, dovrà essere giustificato da esigenze aziendali e dovrà essere limitato nel tempo.
Però il Tribunale di Bari ha aggiunto un tassello in più al puzzle: il controllo sulla chat privata di Facebook installata sul cellulare aziendale è infatti avvenuto senza preventiva informazione del lavoratore.
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