Legittimo il licenziamento del lavoratore assente per malattia che viola gli obblighi di correttezza e buona fede
A cura della redazione
La Corte di Cassazione, con la sentenza 5 agosto 2014, n.17625, ha deciso che il lavoratore può essere legittimamente licenziato quando, durante la sua assenza per malattia, svolge un’attività che, pur non essendo incompatibile con il recupero delle energie psicofisiche, viola gli obblighi di correttezza e buona fede.
Nel caso in esame un dipendente con mansioni di esattore al casello della tangenziale, il giorno 2 luglio 2004 ha interrotto momentaneamente la prestazione lavorativa per recarsi al pronto soccorso dove gli era stata diagnosticata la malattia consistente in “cervicalgia muscolo tensiva con difficoltà di movimento”. Il giorno stesso ha ripreso lavoro per altre due ore, ma poi si è assentato per malattia dal 3 luglio 2004 fino all’11 luglio 2004. La sera del primo giorno di assenza per malattia alle 21.40 ha partecipato ad un concorso ippico presso l’ippodromo come driver in una corsa di trotto a cavallo con calesse. Perdurando lo stato di malattia e l’assenza dal lavoro, nei confronti del lavoratore era stata richiesta una visita fiscale, avvenuta il 7 luglio 2004. La sera dell’11 luglio 2004 alle ore 22.10, ultimo giorno del periodo di malattia, il lavoratore ha preso parte ad un altro concorso ippico. Solo il 14 luglio 2014, dopo aver ripreso il servizio, ha consegnato alla società la documentazione medica attestante lo stato morboso. La società ha prima contestato il comportamento tenuto dal lavoratore e poi lo ha licenziato per giusta causa.
Nei primi due gradi di giudizio, sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dato ragione al lavoratore, disponendo la reintegrazione ed il risarcimento del danno.
Non è dello stesso avviso la Corte di Cassazione, la quale, ha richiamato l’orientamento consolidato (Cass. 21253/2012) secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza, e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza dei periodo di malattia.
Quindi a nulla rileva che l’accertamento effettuato dal perito del Tribunale ha consentito di verificare che la malattia diagnosticata al dipendente rendeva lo stesso temporaneamente inabilitato a svolgere l’attività lavorativa di operatore al casello di pedaggio (perché quest’ultima implicava continue e ripetute rotazioni laterali del collo, unitamente al costante utilizzo dell’arto superiore sinistro), ma non era invece impeditiva dell’attività sportiva di driver nell’ambito del trotto con calesse in ragione della durata non superiore a due o tre minuti della gara ippica e alla mancanza di particolari scuotimenti o sollecitazioni al rachide.
In sostanza, secondo la Suprema Corte, la sentenza della Corte d’appello risulta viziata dato che i giudici di merito si sono limitati a verificare, richiamando le risultanze della predetta perizia, che le gare di trotto con calesse non comportassero particolari scuotimenti o sollecitazioni del rachide, ma non hanno esteso la loro indagine al rispetto dell’obbligo di correttezza e buona fede che richiedeva che il lavoratore adottasse le cautele del caso, ossia quei «comuni presidi terapeutici» che, per la patologia lamentata dal lavoratore, contemplavano essenzialmente il «riposo» e solo nelle fasi acute l’assunzione di farmaci antidolorifici, antinfiammatori e miorilassanti.
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