La Corte Costituzionale, con la sentenza 4/06/2014 n.155, ha deciso che non sussiste alcuna illegittimità costituzionale per la disposizione contenuta nell’art.32, c.4, lett. b) della L. 183/2010 nella parte in cui prevede l’applicazione del termine di decadenza dell’impugnazione del licenziamento ai contratti di lavoro a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della predetta legge e con decorrenza dalla medesima data (24 novembre 2010).

Secondo i giudici del Tribunale di Roma che avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale, la disposizione normativa viola l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo di ragionevolezza nella parte in cui prevede soltanto per i contratti di lavoro a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della L. 183/2010 il termine di decadenza di 60 giorni per impugnazione e non anche per le altre ipotesi contemplate nel suddetto art. 32 che si sono già verificate al 24/11/2010.  In sostanza secondo i giudici di merito non vi è dubbio che il legislatore possa, nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, disciplinare in maniera diversa fattispecie differenti, così come è indubbio che possa disciplinare in maniera identica fattispecie diverse in relazione ad un determinato aspetto (qual è quello del termine d’impugnazione che in questa sede interessa), però queste deve essere fatto in maniera coerente, ragionevole ed uguale per tutte.

Prevedendo invece che il termine di decadenza si applichi ai rapporti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della legge, il legislatore ha introdotto una evidente disparità di trattamento tra i lavoratori intenzionati a contestare in giudizio l’apposizione del termine (costretti ad impugnarli nel termine di 60 giorni a far data dal 24 novembre 2010), e quelli intenzionati a promuovere analoga iniziativa giudiziaria in relazione alle diverse ipotesi previste dallo stesso art. 32, commi 3 e 4, «già concluse» o comunque verificatesi alla medesima data (i quali potranno continuare ad agire in giudizio senza dover rispettare alcun termine di decadenza).

Tale disparità di trattamento, inoltre, è evidente anche dal punto di vista datoriale, non ravvisandosi ragione per tutelare in maniera differente, all’interno della medesima norma, l’interesse dei datori di lavoro, che abbiano stipulato contratti a tempo determinato, di conoscere, in tempi rapidi e certi, se e quanti dei propri ex dipendenti abbiano intenzione di contestarne in giudizio la legittimità, rispetto all’analogo interesse di quegli imprenditori che abbiano invece stipulato contratti di collaborazione coordinata e continuativa, di collaborazione a progetto o di somministrazione, ovvero che abbiano disposto il trasferimento di un lavoratore da una unità produttiva ad un’altra, ovvero ancora che abbiano ceduto un contratto di lavoro, di conoscere con altrettanta rapidità e certezza l’esistenza di analoghe intenzioni impugnatorie da parte dei propri ex collaboratori, dipendenti o ex dipendenti.

Non è dello stesso parere però la Consulta secondo cui il nuovo regime introdotto dall’art. 32 della legge n. 183 del 2010 si applica, nel suo complesso, a tutti i contratti a termine, cioè sia a quelli già scaduti alla data di entrata in vigore della legge, sia a quelli in corso di esecuzione, così come a quelli instaurati successivamente. La ratio di tale disciplina si rinviene in una pluralità di esigenze: quella di garantire la speditezza dei processi mediante l’introduzione di termini di decadenza in precedenza non previsti; quella di contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto; quella di pervenire ad una riduzione del contenzioso giudiziario nella materia in questione.

In sostanza l’applicazione retroattiva del più rigoroso e gravoso regime della decadenza alla sola categoria dei contratti a termine già conclusi prima della entrata in vigore della legge n. 183 del 2010, lasciando immutato per il passato il più favorevole regime previsto per le altre ipotesi disciplinate dalla norma, non si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza.