L’assistenza al familiare disabile frena il trasferimento del lavoratore
A cura della redazione
La Corte di Cassazione, con la sentenza 12/10/2017 n.24015, ha deciso che il lavoratore che assiste il familiare portatore di handicap ai sensi della L. 104/1992, non può essere trasferito in altra sede, senza il suo consenso, a meno che il datore di lavoro non provi che le ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base della variazione del luogo di lavoro non possano essere diversamente soddisfatte, a prescindere che lo spostamento avvenga nella medesima unità produttiva, quando questa comprende uffici dislocati in luoghi diversi.
Nel caso esaminato dai giudici di legittimità, un lavoratore era stato licenziato per assenza ingiustificata per essersi rifiutato di prestare attività lavorativa presso la nuova sede in cui era stato trasferito.
Nei primi due gradi di giudizio il lavoratore è risultato soccombente. Infatti secondo i giudici di merito la prova testimoniale aveva dimostrato che il provvedimento di trasferimento era stato comunicato al lavoratore correttamente con lettera raccomandata e poi oralmente. Pertanto il rifiuto di svolgere la prestazione lavorativa presso il nuovo luogo di lavoro era ingiustificato dato che quest’ultimo si trovava a pochi chilometri di distanza dall’originaria sede di lavoro e dall’abitazione del lavoratore, le mansioni erano equivalenti a quelle già affidate e l’orario di lavoro assegnato non era incompatibile con le esigenze del lavoratore di assicurare l’assistenza al famigliare disabile. Inoltre, sempre secondo la Corte d’Appello, la sanzione risolutiva del rapporto di lavoro era proporzionata alla condotta addebitata perché costituiva una violazione dei doveri fondamentali che incombono sul lavoratore.
Si è così giunti davanti alla Corte di Cassazione la quale ha, invece, accolto il ricorso del lavoratore richiamando in primo luogo l’art. 33, c. della L. 104/1992 secondo cui il lavoratore ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
La stessa Corte ha anche affermato in altre occasioni (sent. 9201/2012, 25379/2016 e 22421/2015) il principio secondo cui la predetta disposizione deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati, alla luce dell’art. 3, secondo comma, Cost, e della Carta di Nizza che, al capo 3 riconosce e rispetta i diritti dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e la partecipazione alla vita della comunità e al capo 4 tratta della protezione della salute, per la quale si afferma che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un alto livello di protezione della salute umana.
La citata norma risulta conforme anche con la Convenzione delle nazioni Unite del 13 dicembre 2006 dei disabili, ratificata con Legge n.18/2009 e dall’unione Europea con decisione n.2010/48/CE.
La ricostruzione del quadro normativo nazionale e sovranazionale e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati induce a ritenere che nel necessario bilanciamento degli interessi e dei diritti del lavoratore e del datore di lavoro, aventi ciascuno copertura costituzionale, dovranno essere valorizzate le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore, occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (Cass. 25379/2016 e 9201/2012).
In questa prospettiva applicativa, deve ritenersi che il trasferimento del lavoratore fruitore dei permessi ex lege 104/1992 è configurabile anche nel caso in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprende uffici dislocati in luoghi diversi.
Infatti il riferimento alla sede di lavoro, indicato nella citata norma, non consente di ritenere che questa corrisponda all’unità produttiva alla quale fa invece riferimento l’art. 2103 c.c. (Cass. 24775/2013).
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