La revoca dell'appalto legittima il licenziamento, ma il datore di lavoro ha l'onore della prova
A cura della redazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20095 del 30 settembre 2011, ha stabilito che, in caso di revoca dell’appalto e conseguente licenziamento dei lavoratori, il datore di lavoro deve provare l’effettiva impossibilità di utilizzare gli stessi in altre mansioni compatibili.
In particolare, la Suprema Corte si è occupata del licenziamento di alcuni lavoratori di un’impresa appaltatrice di lavori pubblici per la costruzione di una linea ferroviaria, in seguito alla revoca dell’appalto, per il ritrovamento di reperti archeologici, ed all’affidamento di esso ad altra impresa.
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in base al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare – anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato) e, mediante elementi presuntivi ed indiziari – l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile “repechage”, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti.
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