La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17366 del 1° settembre 2015, ha confermato la legittimità del licenziamento intimato per gravi violazioni delle direttive aziendali, anche in caso di mancata affissione del codice disciplinare nella sede lavorativa del dipendente.
La vicenda riguardava il direttore di filiale di un istituto di credito, il quale non aveva ottemperato alle procedure interne regolanti il processo di erogazione del credito, aveva autorizzato anticipi sulla base di semplici fotocopie di fatture, aveva deliberato un considerevole mutuo per un importo superiore a quello consentito e aveva permesso ad un terzo estraneo alla banca di accedere alla postazione del terminale con sessione aperta per l’immissione di dati riferibili ad operazioni di mutuo fondiario.
Secondo la Corte, le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, come quelle poste a base del licenziamento oggetto di causa, doveri che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono quelli imposti dagli art. 2104 e 2105 cod. civ. e, specificamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali – la cui vigenza equivale per un soggetto preposto ad una filiale di istituto di credito, quanto all’onere di conoscerle, alle norme di comune prudenza ed a quelle del codice penale – comportano che, ai fini della legittimità del provvedimento irrogativo di un licenziamento disciplinare, non è necessario indicarle nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di un’esplicita specificazione delle norme violate. In effetti, comportamenti come quelli contestati al ricorrente appaiono chiaramente di notevole gravità e si rivelano lesivi dell’elemento fiduciario nell’ambito del rapporto di lavoro bancario, anche in presenza di eventuali prassi e direttive interne, evidentemente “contra legem” e contrastanti con lo stesso interesse obiettivo dell’istituto di credito.