Illegittimo il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo se il patto di prova è nullo
A cura della redazione
Il Tribunale di Milano, con la sentenza 08/04/2017 n.730, ha deciso che il licenziamento intimato a seguito di esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola, non può considerarsi recesso ad nutum ai sensi dell’art. 2096 c.c., bensì consiste in un ordinario licenziamento che necessita, per essere valido, della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.
Nel caso esaminato dai giudici di primo grado, una lavoratrice, dopo essere stata licenziata per mancato superamento del periodo di prova, ha impugnato il recesso sostenendo la nullità della clausola contrattuale.
La sentenza ha accolto le doglianze della lavoratrice ricordando che il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a dover risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l'oggetto.
Nel caso in cui si tratta di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, le mansioni non devono necessariamente essere indicate in dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel documento contrattuale, siano determinabili (così Cass. Sezione Lavoro 27.1.2011 n. 1957); è stato ad esempio dalla giurisprudenza ritenuto sufficiente ad integrare il requisito della specificità il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva, quanto meno ove il richiamo sia fatto alla nozione più dettagliata (così Cass. 19/08/2005 n. 17045) e sempre che il rinvio sia sufficientemente specifico (Cass. 20 maggio 2009 n. 11722; Cass. 9 giugno 2006 n. 13455; Cass. 4 dicembre 2001 n. 15307).
Nel caso di specie, il patto di prova non ha soddisfatto detti requisiti.
Pertanto, ritenuta la nullità del patto di prova e pacifico che al licenziamento di cui si discute è applicabile il D.lgs. n. 23/2015, il giudice ritiene che al recesso per mancato superamento del periodo di prova, intimato in forza di patto nullo, sia applicabile l'art. 3, comma 1 D.lgs. 23/2015 secondo cui "Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità".
La giurisprudenza di legittimità evidenzia infatti che, ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità del patto di prova, non si estende all'intero contratto ma determina "la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario, e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale" (Cass. 18.11.2000 n. 14950).
In sostanziale continuità con detto orientamento si pone la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale "il licenziamento intimato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non e sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri l’insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale" (Cass. n. 17921/2016).
Secondo la giurisprudenza, quindi, il recesso intimato in presenza di patto di prova nullo deve essere ritenuto non a sua volta nullo, bensì sottoposto alla disciplina ordinaria dei licenziamenti.
Escluso che nel caso in esame, possa discutersi di mero vizio formale di difetto di motivazione (art. 4 D.lgs. 23/2015), posto che una motivazione, sia pur fallace, è stata esplicitata dal datore di lavoro nell'atto di recesso, non si ritiene nemmeno applicabile la tutela prevista per l'insussistenza del fatto materiale contestato (art. 3, comma 2, D.lgs. 23/2015), posto che, alla stregua del tenore letterale della norma, essa è applicabile ai soli licenziamenti di natura disciplinare, mentre il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante. Deve quindi ritenersi che, in presenza di patto di prova nullo, il recesso motivato con riferimento al mancato superamento della prova sia da ritenere (meramente) ingiustificato, perché intimato fuori dall'area della libera recedibilità, trovando, quindi, applicazione la disposizione di cui all'art. 3, comma 1, D.lgs. 23/2015, che disciplina le ipotesi di licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo.
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