Lo smart working rappresenta una modalità di esecuzione dell’attività lavorativa ordinaria, basata sull’uso e la piena disponibilità di strumenti informatici e telematici generalmente forniti dal datore di lavoro, anche per ovvie ragioni di sicurezza informatica, che consentono lo svolgimento dell’attività lavorativa prestata in luogo diverso.
Inteso come il risultato di una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di autonomia, negli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare e passando da un ripensamento dei processi produttivi.
Alla luce di queste definizioni di carattere generale, per potersi dire davvero smart il lavoro deve possedere quattro requisiti fondamentali: - una specifica cultura organizzativa ( non più unicamente basata sulla presenza fisica) - l’esplicita introduzione di nuove politiche aziendali, - la possibilità di garantire, da parte dell’azienda, adeguate dotazioni tecnologiche e - la disponibilità, da parte dei lavoratori, di contesti di lavoro da remoto adeguati.
Se non soddisfatte le citate premesse, è ipotizzabile che molti di coloro i quali sono stati “posti” in smart, soprattutto se non precedentemente avvezzi a questa modalità, non vedano l’ora di tornare al loro posto di lavoro. Un’ipotesi che induce, anche a pensare che un buon numero di aziende non desiderino proseguire su questa strada, costringendo così al rientro in ufficio anche coloro i quali avrebbero comunque potuto, e magari anche preferito, continuare a lavorare da casa con le esigenze che il cosiddetto “Decreto Rilancio” tutela espressamente, con l’attribuzione di un vero e proprio diritto al lavoro da remoto, laddove vi sia, per esempio, la presenza di figli minori di quattordici anni.
La modalità emergenziale del lavoro da casa ha dovuto confrontarsi con una nuova geografia delle diversità (economiche e sociali) immaginando, ad esempio, le condizioni di lavoro di coloro i quali non potevano, o non possono, vantare la presenza in casa di uno spazio dedicato o anche le difficoltà di chi possiede dotazioni tecnologiche non efficienti, con reti internet domestiche non adeguate a sostenere carichi prolungati con una molteplicità di device collegati.
Queste considerazioni, ovviamente, nulla tolgono al fatto che ci si debba augurare che le aziende “distratte” dalla pandemia e costrette a remotizzare il lavoro, possano capitalizzare l’esperienza che potrebbe essere assunta, orientandosi verso una ridefinizione della loro complessiva organizzazione. Ciò potrebbe condurle ad innovare la propria impostazione e questo sarebbe un lascito di non poco conto che le avvicinerebbe a quelle imprese che, già da tempo organizzate in maniera meno tradizionale, hanno invece potuto passare dal fisico al digitale immediatamente senza perdere nulla in termini di efficienza e produttività.