Giurisprudenza
Il Consulente del lavoro non può prestare assistenza fiscale a autonomi e imprese
A cura della redazione
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10100 dell’11 marzo 2011, si è pronunciata sulla configurabilità del reato di cui all’art. 348 cod. pen. (esercizio abusivo della professione) in relazione all’attività del consulente del lavoro che presti la propria attività consulenziale a favore di lavoratori autonomi e imprese.
In particolare, la sentenza in commento prende in esame il caso dell’attività di consulenza tributaria e di redazione e controllo di bilanci di impresa svolte da un consulente del lavoro, attività ritenuta dall’ordinanza impugnata in cassazione, come riservata in favore dei commercialisti.
La questione era affrontata nell’ambito del procedimento inerente il sequestro preventivo dello studio professionale del consulente del lavoro, in quanto bene ritenuto pertinente al reato di esercizio abusivo della professione.
La Corte di cassazione ha respinto il motivo di ricorso del professionista relativo alla configurabilità del reato, accogliendo invece quello inerente l’illegittimità del sequestro pere mancanza di pertinenza con il reato.
Sotto il primo profilo, la Cassazione ha affermato che l’accertamento che la prestazione erogata sia atto tipico, caratteristico di una professione per il cui esercizio manca l’abilitazione, è sufficiente per la configurabilità del reato: più specificamente, se il consulente del lavoro può legittimamente occuparsi della liquidazione e del pagamento delle imposte dei lavoratori dipendenti, in ragione della competenza in materia di redditi da lavoro dipendente, egli non può invece prestare assistenza fiscale e contabile anche ai lavoratori autonomi, attività che è di competenza esclusiva dei commercialisti.
Sotto il secondo profilo, la Corte ha invece ritenuto fondato il ricorso ed ha cassato l’ordinanza di sequestro, ritenendo che il vincolo di pertinenzialità al reato implica un’indefettibile correlazione strumentale tra il bene sequestrato ed il reato, nel senso della necessarietà del primo per l’attuazione e protrazione della condotta illecita, aspetti questi nella specie mancanti. In giurisprudenza, sul tema, Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8685 del 21/06/1993 aveva affermato che il processo penale non conosce azioni dichiarative, per cui non possono prospettarsi al giudice problemi di carattere generale, non necessari alla soluzione del caso concreto, ma diretti a fornire più ampie indicazioni sul comportamento futuro per altri soggetti o categorie di soggetti, che si troveranno ad interpretare le norme giuridiche.
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