Giurisprudenza
Corte di Giustizia UE, tutela della maternità
A cura della redazione
La Corte di Giustizia UE, con la sentenza n. C-232/09 dell’11 novembre 2010, ha affermato che il divieto di licenziamento, che opera dall’inizio della gravidanza al termine del congedo di maternità, trova applicazione anche qualora l’incarico di membro del CdA di una società di capitali sia svolto in virtù di un mandato che sia revocato in ragione dello stato di gravidanza.
La questione sottoposta all’esame della Corte di Giustizia Europea verte circa la applicazione delle norme di tutela nel periodo di maternità.
La vicenda ha visto protagonista una cittadina dell’Unione Europea, membro del Consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata lettone, alla quale l’Assemblea dei soci revoca le funzioni, apparentemente in ragione dello stato di gravidanza.
La Corte, innanzitutto, valuta la posizione del membro del CdA alla luce delle modalità di espletamento dell’incarico all’interno della società.
La Corte ritiene che un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali, che fornisca prestazioni alla società e che ne formi parte integrante, sia da considerarsi “lavoratore” ai fini della applicazione della diretta comunitaria 92/85/CEE concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.
Cio’ qualora il soggetto svolga la propria attività, per un certo periodo di tempo, sotto la direzione e/o il controllo di un altro organo della società e detta attività sia remunerata.
La Corte si richiama sul punto ad una giurisprudenza costante (v., per analogia, nel contesto della libera circolazione dei lavoratori e del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, sentenze 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, Racc. pag. 2121, punti 16 e 17 e 13 gennaio 2004, causa C 256/01, Allonby, Racc. pag. I 873, punto 67, nonché, nel contesto della direttiva 92/85, sentenza 20 settembre 2007, causa C 116/06, Kiiski, Racc. pag. I 7643, punto 25).
Infatti, la nozione di “lavoratore” ai sensi della richiamata direttiva non può essere interpretata in vario modo, con riferimento agli ordinamenti nazionali, e dev’essere definita in base a criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate, come evidenziato dalla Corte.
Infine, così la Corte in conclusione su questo primo aspetto, spetta al giudice del rinvio procedere a verificare gli elementi di fatto necessari per poter valutare se tali circostanze ricorrano nella controversia di cui è investito.
La seconda questione dibattuta dalla Corte è tesa a chiarire se l’art. 10 della direttiva 92/85 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nella causa principale, la quale consente la revoca di un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali senza limitazioni, segnatamente senza che sia tenuto conto dello stato di gravidanza della persona interessata.
Si evidenzia come l’art. 10 preveda una protezione specifica per la donna stabilendo il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità.
La norma non tollera alcuna eccezione o deroga al divieto, tranne che in casi eccezionali non connessi allo stato delle lavoratrici gestanti e a condizione che il datore di lavoro fornisca per iscritto le giustificazioni per il licenziamento. Rispetto al caso sottoposto alla Corte, la stessa constata la contrarietà alla legislazione comunitaria della normativa nazionale - che consente la revoca unilaterale di un mandato, da parte del mandante, prima della scadenza inizialmente prevista, senza limitazioni, qualora il soggetto interessato rivesta la qualifica di “lavoratrice gestante”, e qualora la revoca sia motivata dallo stato di gravidanza del mandatario o sia basata essenzialmente sullo stato di gravidanza.
E ancora: anche qualora non si riconosca alla ricorrente la qualità di “lavoratrice gestante” nel senso lato auspicato dalla direttiva 92/85, si deve ammettere che nella fattispecie la revoca del mandato puo’ riguardare unicamente le donne realizzando così una discriminazione diretta basata sul sesso e contraria alla finalità di tutela perseguita dalla direttiva 76/207 (relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/Ce).
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