Contratto a termine: serve una chiara e certa volontà delle parti per porre fine al rapporto
A cura della redazione
La Corte di Cassazione, con la sentenza 19/10/2017 n.24744, ha deciso che affinché possa configurarsi la risoluzione del contratto a tempo determinato non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del termine.
Nel caso in esame un lavoratore era ricorso al Tribunale del lavoro chiedendo che venisse accertata la nullità dei contratti di somministrazione di lavoro temporaneo stipulati e l’esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice.
Entrambi i giudici di merito (primo e secondo grado) hanno confermato le pretese del lavoratore.
La società è così ricorsa alla Suprema Corte evidenziando che il lasso di tempo intercorso tra la cessazione del rapporto di lavoro e l’impugnazione giudiziaria, unitamente al ritiro del libretto del lavoro e alla riscossione del TFR, erano tutti elementi che attestavano la volontà del dipendente di voler risolvere il contratto di lavoro.
I Giudici di legittimità hanno ritenuto infondato il motivo del ricorso ribadendo un concetto già espresso in altre occasioni (Cass. sent. nn. 23965/2015, 23057/2010 e 2279/2010) ossia che affinché possa configurarsi una tale risoluzione è necessario che sia accertata, sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative, una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, tenuto conto, altresì, del fatto che l’azione diretta a far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto per contrasto con norme imperative ex artt. 1418 e 1419 cpv cc. per sua natura imprescrittibile.
Il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la sua proposizione dell’azione giudiziale non può, di per se solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato, in un’ottica che valuti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico in favore di un elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per taciuto muto consenso (Cass. sent. 12665/1997 e 824/1993).
I giudici di merito hanno correttamente escluso che un muto consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro potesse desumersi dal decorso del tempo rispetto all’esercizio dell’azione e dalla percezione del TFR. Infatti l’accettazione di quest’ultimo non costituisce elemento di valutazione significativo perché risponde più direttamente, stante la perdita del reddito da lavoro, ad esigenze alimentari.
La Suprema Corte, nella stessa sentenza, aveva anche ritenuto nullo i contratti di somministrazione a termine stipulati con il lavoratore per la mancata indicazione specifica delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo richieste dall’art. 20 del D.Lgs. 276/2003. Quanto affermato dai Giudici di legittimità deve ritenersi ormai obsoleto dato che il nuovo D.Lgs. 81/2015 che regolamenta le tipologie contrattuali non le richiede più.
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