Cessazione dell’attività: nullo il licenziamento in violazione del divieto anti COVID-19
A cura della redazione
Il Tribunale di Mantova, con la sentenza n. 112 dell’11 novembre 2020, ha dichiarato nullo il licenziamento per cessazione dell’attività, comminato in violazione del divieto previsto dall’attuale normativa “anti COVID”, ancor più se il datore di lavoro non fornisce la prova dell’effettiva esistenza del giustificato motivo oggettivo.
Il divieto generalizzato di licenziamento individuale per giustifico motivo oggettivo è stato inizialmente introdotto dall'art. 46 del Decreto c.d. Cura Italia (D.L. 18/2020) fino alla data del 17 maggio 2020, è stato prorogato con il Decreto c.d. Rilancio (D.L. 34/2020) fino alla data del 17 agosto 2020 e nuovamente prorogato con l'art. 14 del c.d. decreto Agosto (D.L. 104/2020) che consente di intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo solo dopo aver concluso il periodo di ammortizzatori sociali previsti dall'art. 1 del Decreto o soltanto dopo aver fruito dell'agevolazione contributiva prevista dall'art. 3 del D.L. 104/2020.
Trattasi di una tutela temporanea della stabilità rapporti per salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico ed è una misura di politica del mercato del lavoro e di politica economica collegata ad esigenze di ordine pubblico.
Dal carattere imperativo e di ordine pubblico della disciplina del blocco dei licenziamenti consegue la nullità dei licenziamenti adottati in contrasto con la regola, con una sanzione ripristinatoria ex art. 18, 1° comma, L. 300/1970 e ex art. 2 D.Lgs. 23/2015 (derivando la nullità 'espressamente' dall'art. 1418 c.c.).
La giurisprudenza prevalente ritiene applicabile al contratto di apprendistato la disciplina del licenziamento valevole per i contratti a tempo indeterminato stante l'assimilabilità del rapporto di apprendistato all'ordinario rapporto di lavoro con la conseguenza che la ricorrente, pacificamente licenziata in data 9.6.2020 in violazione del divieto di cui sopra, deve essere reintegrata nel posto di lavoro precedentemente occupato e il datore di lavoro dovrà essere condannato al pagamento della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio, ferma restando la facoltà della lavoratrice di optare per la indennità sostitutiva della reintegra.
Vi è da aggiungere, in ogni caso, che è noto che è onere del datore di lavoro provare la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento e nella fattispecie in esame nulla è stato dimostrato poiché il datore di lavoro ha scelto di non costituirsi con la conseguenza che, a prescindere dalla legislazione d'emergenza, la ricorrente ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro perché il datore di lavoro non ha provato di aver cessato l'attività come enunciato nella lettera di licenziamento.
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