Giurisprudenza
Cassazione: bossing e reato di violenza privata
A cura della redazione
Il datore di lavoro che minaccia un dipendente per indurlo ad accettare un trattamento peggiorativo rispetto a quello contrattuale può dar luogo al fenomeno sociale definito come bossing o peggio ancora concretizzare il reato punito dal codice penale di violenza privata (Cass. 31413/2006).
Il fenomeno del bossing, che rappresenta una variante del più generico e diffuso mobbing (comportamento non previsto dalla legge come reato) consiste in atti e comportamenti con carattere sistematico e duraturo, quali la violenza e la persecuzione psicologica posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro.
Affinchè quindi il datore di lavoro possa essere condannato al risarcimento del danno è necessario che il suo comportamento, pur concretizzando il fenomeno sociale del mobbing (o bossing) consista in un vero e proprio reato punito dalla legge.
Infatti la Suprema Corte precisa che può esservi una condotta molesta o vessatoria o comunque mobbing anche con atti di per se legittimi e che simmetricamente non ogni demansionamento così come ogni altro atto illegittimo da luogo a cascata a mobbing.
Pertanto affinchè ciò avvenga, è necessario che quell'atto emerga come l'espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.
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