Nel decreto-legge n. 73 del 2021, è stato istituito, per l’anno 2021, un fondo presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità di 50 milioni di euro con la finalità di erogare dei contributi alle imprese dotate del mobility manager e di un piano di mobilità di cui all’art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020, al fine di promuovere «iniziative di mobilità sostenibile, incluse iniziative di car-pooling, di  car-sharing,  di  bike-pooling  e  di bike-sharing».

Di fronte a questi cambiamenti organizzativi, la tutela dell’infortunio in itinere potrebbe tornare a far parlare di sé, ma andiamo per ordine.
 
Introdotto per la prima volta dal Decreto 27 Marzo 1998 del Ministero dell’ambiente (c.d. 
Decreto Ronchi), il piano degli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti (meglio noto come “PSCL”) deve essere organizzato da un “responsabile della mobilità aziendale” (mobility manager) ed è finalizzato a ridurre l’uso del mezzo di trasporto privato favorendo forme di mobilità sostenibile con lo scopo di ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera e migliorare gli spostamenti all’interno delle città. Non avendo avuto una particolare diffusione, anche per l’assenza di una vera e propria obbligatorietà o di sanzioni, l’organizzazione del PSCL viene rilanciata tra il 2020 e il 2021. In particolare, l’art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020 che precisa per le aziende “…sono tenute ad adottare, entro il 31 dicembre di ogni anno, un piano degli spostamenti casa-lavoro del proprio personale dipendente finalizzato alla riduzione dell’uso del mezzo di trasporto privato individuale nominando, a tal fine, un mobility manager con funzioni di supporto professionale continuativo alle attività di decisione, pianificazione, programmazione, gestione e promozione di soluzioni ottimali di mobilità sostenibile”. Per favorire una maggiore diffusione di questa misura, nel 2021 è stato anche disposto un incentivo per le imprese che avessero adottato un piano di mobilità.

Il mobility manager è colui che non solo collabora alla stesura del piano di mobilità ma gestisce anche le
domande di mobilità” dei dipendenti e quindi autorizza, per conto del datore di lavoro, i lavoratori ad utilizzare alcuni mezzi piuttosto che altri per lo spostamento casa-lavoro. L’art. 51, comma 7 del decreto-legge n. 73 del 2021 ha aumentato le competenze di questo ruolo, dandogli la possibilità di autorizzare i dipendenti a fare ricorso al car-pooling, al car-sharing, al bike-pooling e al bike-sharing, come strumenti alternativi al mezzo privato.

In molte realtà aziendali, infatti, ha cominciato a prendere piede la possibilità per i lavoratori di ricorrere al car sharing o al car pooling per agevolare gli spostamenti dalla propria abitazione verso il luogo di lavoro.

Fatte le dovute premesse cerchiamo di capire come il tema degli infortuni in itinere può essere gestito viste le nuove forme di mobilità sempre più diffuse tra aziende e collaboratori.
 
La normativa in materia prevede dei rigorosi presupposti per accordare la tutela assicurativa nel caso in cui il lavoratore si infortuni “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”; peraltro, l’utilizzo di mezzi di mobilità diversi da quelli pubblici per compiere tali tragitti sono legittimi ai fini dell’accesso alla tutela assicurativa solo quando necessari (cfr. art. 2, comma 3 del D.p.r. n. 1124 del 1965).
 
Per normale percorso casa-lavoro, deve intendersi un percorso abituale e la scelta non deve dipendere da ragioni del tutto personali o comunque estranee all’attività lavorativa (così Cass. Civ. 13 gennaio 2014, n. 475; Cass. Civ. 5 febbraio 2019, n. 3376). Il requisito della abitualità e quindi della normalità viene meno, infatti, quando vi sia una “macroscopica divergenza del tracciato prescelto” tale da “non risultare ragionevolmente giustificabile, se non per dimostrare esigenze inerenti allo stretto raggiungimento del luogo di lavoro” (Cass. Civ. 25 settembre 2006, n. 5603). Quindi, salvo che non si dimostri il contrario, un cambiamento ingiustificato del percorso per raggiungere il luogo di lavoro non dà diritto alla copertura assicurativa ex art. 2, comma 3 del D.p.r. n. 1124 del 1965.
 
Quanto alla scelta del mezzo, l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere non é subordinata all’utilizzo di un mezzo di trasporto specifico. Semmai, è la comprensione di quando si possa configurare una situazione di necessità tale da giustificare l’impiego del mezzo privato e quindi l’estensione della copertura assicurativa. Quali sono quindi questi aspetti di necessità:

-Inadeguatezza dei mezzi pubblici di trasporto tali da non consentire al lavoratore la possibilità di raggiungere il posto di lavoro (Cass. Civ. 23 marzo 1989, n. 1483) anche quando i mezzi pubblici hanno imposto al lavoratore lunghe attese o un grosso dispendio economico.

-Impossibilità di percorrere a piedi il tragitto per raggiungere il posto di lavoro a causa della eccessiva distanza (Cass. Civ. 10 dicembre 1993, n. 12179).

-Impiegando un mezzo privato, sarebbe diminuito il tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro (Cass. Civ. 29 luglio 2010, n. 17752).

In un solo caso, la legge ha disposto una sorta di presunzione, per cui l’utilizzo di quel determinato mezzo può dirsi sempre necessitato. L’art. 5, comma 4 della legge n. 221 del 2015 ha aggiunto un inciso all’art. 2, prevedendo che “l’uso del velocipede” di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 285 del 1992 “deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato”. Si ricorda anche che l’art. 1, comma 75 della legge n. 160 del 2019 equipara ai velocipedi “i monopattini a propulsione prevalentemente elettrica non dotati di posti a sedere, aventi motore elettrico di potenza nominale continua non superiore a 0,50 kW”, e quindi la presunzione deve ritenersi valida anche a questi ultimi. Il motivo di questa presunzione è da riscontrarsi nel fatto che l’impiego di tali mezzi valorizzi standard di comportamento, tra i quali figura la tutela dell’ambiente.

Alla luce dell’attuale quadro normativo non si pongono particolari problemi di tutela per la mobilità casa-lavoro ricorrendo al bike-sharing, sorge invece il dubbio se al lavoratore che ricorra all’utilizzo di car-pooling o di car-sharing per raggiungere il posto di lavoro possa essere accordata la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere.

Vediamo le casistiche: il car-pooling è una modalità di mobilità che comporta l’uso di una sola automobile per trasportare più persone che devono raggiungere il medesimo luogo. In questo caso, la “normalità del percorso” casa-lavoro potrebbe perdere il requisito della abitualità perché il dipendente che si fa carico di trasportare anche gli altri colleghi potrebbe essere costantemente costretto a cambiare il percorso in ragione del luogo in cui si trovano gli altri lavoratori ai quali fornire il passaggio. Alla medesima questione si espone l’utilizzo del car-sharing, molto spesso l’utilizzatore della vettura è obbligato a fare alcuni percorsi e non altri, ad accedere ad alcune arterie stradali e non ad altre 

I problemi qui esposti possono ritenersi superati se si tiene in considerazione che diversi provvedimenti normativi hanno legittimato tali modalità di spostamento purché adottate secondo le modalità e le direttive impartite dal datore di lavoro: si fa qui riferimento al piano di mobilità e al ruolo del mobility manager (cfr. art. 229, comma 4 del decreto-legge n. 34 del 2020), rispetto al quale, anche l’INAIL ha fornito delle istruzioni operative (cfr. INAIL, Piano degli spostamenti casa-lavoro, 22 dicembre 2021). La tutela dell’ambiente, dunque, che oggi viene accentuata dalla modifica dell’art. 41 Cost., potrebbe essere la “leva giuridica” attraverso la quale rileggere il concetto di “normale percorso di lavoro” rispetto al car-pooling e al car-sharing, tenendo conto del resto di quel recente orientamento giurisprudenziale secondo il quale il concetto di “normalità” del percorso va necessariamente valutato anche alla luce dei “valori guida dell’ordinamento giuridico”. Da qui, la possibilità di sostenere che a tutti i lavoratori dipendenti di aziende che adottino un piano di mobilità nel quale sia contemplata tanto l’ipotesi di car-sharing che di car-pooling non possono ritenersi scoperti dalla tutela assicurativa obbligatoria in caso di infortunio in itinere; anzi, per questi ultimi, potrebbe operare la presunzione della necessità già prevista per l'uso della bicicletta.
 
Il problema è ancora irrisolto e a darne prova è presente una proposta di legge pervenuta in Parlamento 6 anni fa (poi abbandonata), in cui si prospettiva l’opportunità di modificare l’art. 2, comma 3 del del D.p.r. n. 1124 del 1965 al fine di prevedere la possibilità di riconoscere l’infortunio in itinere anche nel caso di utilizzo di un servizio condiviso di un veicolo privato nel percorso tra casa e lavoro (car pooling).
 
Al netto di questo approccio normativo, va segnalato che quando la contrattazione collettiva introduce particolari modalità di mobilità, anticipando – come del resto accade di frequente – il legislatore nell’attività di tutela del bene ambiente, i datori di lavoro, anche di comune accordo con le organizzazioni sindacali, disciplinino le modalità di utilizzo del car-sharing o del car-pooling, soprattutto quando le imprese non siano obbligate ad adottare un piano di mobilità ai sensi della normativa vigente.